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Quanto vale questa informazione?

14 Gen Posted by in Uncategorized | 1 comment

Come sappiamo, “The protester” è stato il personaggio del 2011 per Time. E’ una figura simbolica che racchiude in particolare i manifestanti del mondo arabo, gli “indignados” e i partecipanti al movimento Occupy Wall Street (e ai suoi simili). Il termine “protester” però poco si addice alla natura di queste persone, così come in italiano poco si addicono manifestante, contestatore, dimostrante e dissidente.

Time: The protester

Forse non esiste ancora un termine appropriato per definire comunità di persone autoorganizzate e indipendenti, che collaborano, comunicano e si muovono lungo hub o connessioni reticolari, spinte da un interesse comune.

Se anni fa in ambito marketing parlavamo di prosumer (crasi di producer e consumer), oggi potremmo parlare di procitizen (da proactive citizen oppure producer citizen), ma lascio volentieri ad altri l’incombenza di trovarne uno calzante.

Perché dico questo? Perché questi gruppi e queste comunità non si sono limitati a scendere nelle piazze e nelle strade ma hanno anche gestito a 360 gradi la comunicazione tra di loro e verso il resto del mondo, scavalcando, anticipando, migliorando e trainando i media mainstream. Un ecosistema di semplici cittadini, blogger e giornalisti dei media digitali ha mostrato a tutto il mondo mirabili esempi di comunicazione innovativa, efficace ed efficiente come mai si era visto, utilizzando Internet e i dispositivi mobili come naturali strumenti attuativi.

Senza tutto ciò, probabilmente avremmo assistito a manifestazioni simili in tutto e per tutto a quelle dei decenni passati,  probabilmente le avremmo viste fallire, probabilmente avremmo una diversa distribuzione dei diritti e delle risorse, probabilmente  probabilmente avremmo qualche dittatore in più.

Guardate invece questo  articolo, dal roboante titolo “La mappa mondiale delle guerre del 2012“: non c’è un link corretto. Ma non si tratta di semplici errori nel copiaincollare l’URL della pagina, bensì sono hyperlink che contengono le note personali dell’autore, che evidentemente non si è nemmeno premurato di verificarne il corretto funzionamento.

Chi legge di solito non pensa che dietro un articolo ci può essere – e purtroppo capita sempre più spesso – una storia che riguarda un autore precario, sottopagato o vessato. Non pensa che questo possa essere obbligato a produrre articoli in quantità industriale perché è (sotto)pagato un tot al chilo.

Al contrario, pensa a quale coraggio possiede l’editore per chiedere a un lettore (altro termine obsoleto) di pagare per accedere a queste notizie dal proprio dispositivo mobile. Dispositivo dal quale l’accesso alla contestualizzazione è fondamentale. E i link (quando esistono) offrono proprio questo.

In fin dei conti, certi paywall fanno solo il bene dei lettori. Nel senso che meno persone leggono questi contenuti e meglio è.

 

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