Il crac Parmalat si poteva evitare?
Il disastro nucleare di Fukushima – appena equiparato come gravità a quello di Chernobyl – si poteva evitare?
In questi giorni si parla della beffa finale per gli investitori di Parmalat, mentre le ammissioni di responsabilità della Tepco erano già note, così come altre pesanti accuse provenienti da chi sapeva e ha taciuto.
Potremmo continuare a parlare delle responsabilità della British Petroleum nel disastro petrolifero del Golfo del Messico, oppure dell’occultamento dei dati reali su situazioni che costituiscono reati finanziari (ormai depenalizzati) o fiscali nel nostro Paese.
Secondo uno studio della Bocconi di Milano, in Italia sono in aumento frodi e bancarotte; nella metà dei casi esaminati esisteva una situazione in cui i manager hanno coperto situazioni finanziarie a rischio di bancarotta.
Secondo la banca dati dell’Agenzia delle Entrate, l’evasione fiscale in Italia oggi arriva al 38,41%, con punte del 66%; i casi di evasione smascherati, pur se di una certa rilevanza, costituiscono una goccia nel mare.
C’è però un aspetto sul quale vale la pena soffermarsi: in tutti questi casi c’era qualcuno che sapeva.
Sapeva ed è stato zitto, per omertà o per paura.
A questo punto è lecito chiedersi se, attraverso la resa pubblica preventiva di alcune informazioni riservate di queste imprese private, si sarebbero potuti per lo meno limitare danni alle persone coinvolte e disastri ambientali colposi.
In che modo?
C’è l’esempio dell’informatore dello scandalo Enron, nominato “Person of the Year” da Time magazine nel 2010.
Spesso si parla di Wikileaks in relazione a illeciti compiuti dalle istituzioni o a eventi politici, solo più di recente per cablogrammi relativi a imprese private, come grossi gruppi bancari.
Secondo Julian Assange, già ora circa la metà dei dati acquisiti da Wikileaks riguarda società private anziché istituzioni.
In questo momento il vero rischio per le imprese è costituito dalla fuga di notizie.
Ovviamente le informazioni appetibili non dovrebbero essere quelle strategiche o riservate – eventualmente utilizzabili dalla concorrenza – quanto piuttosto le segnalazione di azioni illecite, non etiche o imbarazzanti.
E’ errato pensare che sia così difficile: nelle realtà aziendali capita spesso che a separare le informazioni aziendali dal diventare cablogrammi siano soltanto una chiavetta USB o uno spazio web privato, anche a causa di sistemi di sicurezza aziendali spesso inadeguati perché pensati per gestire perdite di dati ma non le fughe di dati.
Dopo avere visto all’opera negli ultimi tempi Wikileaks, ora è arrivato il momento dei suoi cloni, Openleaks in testa, passando per Localeaks, Frenchleaks, Indoleaks, Balkanleaks, Unileaks, Rospil e altri.
Esistono persino progetti che mettono in relazione tra loro queste informazioni.
Un ulteriore passaggio è appunto una piattaforma pensata per raccogliere e distribuire cablogrammi su appalti truccati, truffe, evasioni fiscali e tutto ciò che, oltre a rivestire un ruolo squisitamente informativo per la cittadinanza, può contribuire a tutelarne gli interessi.
E’ in questa ottica che è stata creata Corporateleaks, per intenderci, che però è in lingua inglese; attualmente manca qualcosa di analogo in lingua italiana.
Come dicevo giorni fa, venerdi e sabato sarò a Perugia per il Festival del giornalismo: mi piacerebbe che si affrontasse questo argomento qui, qui o qui.
crediti immagine
uhaha in italia non potrebbe mai esistere una cosa del genere, non esistono manco dei siti per dare un giudizio alle aziende… insomma non è che manchi libertà di espressione ma quasi perchè appena si dice qualcosa che non va bene si viene denunciati per diffamazione!Senza contare che non si possono manco pubblicare le verità per es. già ora se un giornalista pubblica delle telefonate intercettate rischia la galera e comunque è un argomento spinoso io rimango sempre per la trasparenza più totale!
E’ vero. Ho lanciato apposta la provocazione 😉
Il modello di Openleaks, che prevede un anonimato totale per i collaboratori, potrebbe essere quello più percorribile.
All’estero è nato OpenCorporates e mi pare che l’Italia non ci sia uff .(
Interessante Matteo, grazie per la segnalazione.
Non era tra quelli che conoscevo già 🙂
Insisto comunque sulla necessità di avere interfacce localizzate per rendere lo strumento accessibile a tutti, ma proprio tutti.